Ouverture per un futuro incerto
Cos’è l’orizzonte? Una tensione, un desiderio, un combattimento eroico per conquistare qualcosa, per spostarci in avanti, dove forse non riusciremo mai ad arrivare? È la somma delle tensioni, dei desideri e spesso delle sconfitte? È la misura della nostra fragile umanità di desideri e rinunce?
L’orizzonte è il protagonista assoluto, insieme ai corpi e alle voci, di Ouverture, un’opera-performance presentata all’inaugurazione della rassegna di creazioni uscite dal progetto Gradus. Passaggi per il nuovo di Reggio Parma Festival, una coproduzione del Festival Aperto di Reggio Emilia, della Fondazione I Teatri (sempre di Reggio), del Festival Verdi di Parma, del Teatro Regio di Parma. È un’opera contemporanea, che ha la propria novità nell’assoluto suo spessore fisico e in un senso di metamorfosi continua che ci porta nei nostri giorni fluidi e imprendibili, nei quali nulla è come sembra essere.
Di Gradus ha scritto su Doppiozero circa una settimana fa Chiara De Nardi (leggi qui). In estrema sintesi è un percorso volto a favorire la nascita di nuove drammaturgie attraverso momenti di formazione, che portano i vincitori di un bando a confrontarsi con maestri che li indirizzano verso strade originali di creazione.

Il primo spettacolo presentato, Ouverture, è stato un lavoro assolutamente collettivo, ci spiega uno degli autori: messo a punto portando al confronto e fondendo le idee di due gruppi differenti, quello formato dagli italiani Gaetano Palermo e Michele Petrosino, che firmano regia e coreografia, e quello degli italo argentini Giuliana Kiersz e Fernando Strasnoy, responsabili rispettivamente del testo poetico e della composizione musicale.
Gaetano Palermo è una ‘vecchia’ conoscenza: le virgolette sono dovute al fatto che quando ne ho parlato su questa rivista, nel luglio del 2023, due anni fa, aveva ventiquattro anni e quindi, immagino, ora sia arrivato ai ventisei. Avevamo visto una sua impressionante, fortissima performance alla Biennale Teatro, anche quella come esito della vittoria di un bando, quello dei College della rassegna veneziana. Una danzatrice e ginnasta volteggiava sui pattini intorno al cadavere di un piccione morto, all’aperto, davanti all’ingresso di via Garibaldi dei Giardini di Castello. Il suo volto era plastificato. Si sentivano spari e a essi corrispondevano cadute della performer, via via sempre più fuori sincrono. Era una prova insieme fisica, di alta tensione emotiva per chi sotto il sole guardava, di forte significato, incentrata sulla continua delusione delle aspettative e sull’evasione in altri luoghi mentali, con la tensione tra il ‘cadavere’, il volto plastificato del ‘cigno’ che volteggiava citando il famoso balletto Il lago dei cigni, i colpi che segnavano a sangue il corpo della performer. Chi vuole leggere la recensione può farlo qui, in mezzo ad altre considerazioni sul festival veneziano.

Ouverture ha molti tratti che richiamano quella performance, lo sport che diventa danza e metamorfosi, ma presenta una strutturazione più complessa. A partire dal libretto, che ha una scrittura esplosa, su varie righe, con frammenti di frasi o di parole brevissimi, a suggerire e disegnare quella che sarà la forma musicale: simile al madrigale cinquecentesco, perché consiste nell’incastro di parole spesso pronunciate o intonate in sovrapposizione, di voci e di timbri vocali, di figure testuali, tanto da comporre, nel gioco dei rimandi, qualche slittamento dall’incedere ordinato e sequenziale del testo. Evocano, quelle parole, l’orizzonte, lo specchio nel quale ci riflettiamo, per riconoscerci o smarrirci, e l’emozione, che ci trasforma in
“l’orizzonte
che muove
il mondo”
con tutti quei bianchi nella pagina, quegli spazi liberi per l’inserzione di pause o di altre voci, di altri frammenti verbali; orizzonte che ci porta verso un futuro in cui sei smarrito, in cui non sai “per cosa / perché / sopravvivi” (sempre una riga per ogni breve verso sistemato sui bordi destri della pagina), perché “Questa è / la tua storia. / e questo è / il principio”.

La serata del debutto, il 3 ottobre, giorno dello sciopero generale per Gaza e a sostegno della Flotilla, prima della recita gli artisti hanno dedicato qualche parola alla tragedia che si sta svolgendo in Palestina, conclusa da alcuni versi di Antonella Anedda: “[…] noi non siamo salvi / noi non salviamo / se non con un coraggio obliquo / con un gesto / di minima luce”. Parole forti, per sotterranei fiumi carsici legate a quelle del testo di Ouverture, cioè allo stare, in una condizione sospesa che riguarda tutti. Nello spettacolo i versi di Giuliana Kiersz, questi pensieri, queste frasi smozzicate, esplose, introiettate, rese memorabili o sfuggenti, sono cantate, in toni poco più che parlati e pure con slanci che tendono alla melodia, in un parlato musicale che, nell’incrocio tra le differenti voci e i loro timbri, crea un movimento continuo, un ruminare del pensiero, dello sguardo retrospettivo, dello slancio e dell’abbandono.

Ma testo, voce, musica sono solo una parte della stratificata composizione scenica. Coprotagonisti sono cinque tapis roulant, intorno ai quali avvengono le azioni dei performer cantanti e le loro metamorfosi, in un trascorrere tra l’esercizio fisico e l’incanto vocale, tra lo stretching e il canto in azione, tra il prepararsi e l’agire e connettere voce, canto e wellness, in quello stesso movimento che il testo racconta per sprazzi tra la tensione verso una meta, l’allenamento per raggiungerla e il rispecchiarsi nelle proprie riuscite, nei propri fallimenti.
C’è, all’inizio, solo un vecchio in tuta sul tapis, che poi va di fronte al luogo scenico, si spoglia, si toglie la maschera rugosa e si rivela: è la direttrice d’orchestra, con una lunga coda di cavallo, in frac sotto la divisa ginnica, Laure Deval. Entra una prima ragazza mora, riccia, con una borsa; si stende davanti a un tapis roulant, a terra, scioglie il corpo, si stira, distende arti e busto e articola versi con limpida voce da soprano, Maria Giuliano Seguino. Poi un’altra, bionda, che si specchia nel suo allenamento usando un telefonino collocato su un treppiede, Dominika Isabell Markova, dalla caldissima voce di mezzosoprano. Entra un baritono, tratti orientali, confermati dal nome, Xiaofei Liu: gli inserimenti della sua voce scaveranno crepacci profondi. A destra dello spettatore, celata sotto un cappellino con visiera di quelli alla moda, arriva Maria Clara Maiztegui, soprano anche lei, squillante negli insiemi e cristallina negli assoli. Ultimo a entrare, sempre in tenuta sportiva, Daniel Wendler, grandi baffi, un allenamento mirato principalmente verso la boxe, il combattimento, e timbro di basso.

Le voci si intrecciano, si incastrano, si sciolgono e si riavvolgono, a portarci verso quegli orizzonti pressocché irraggiungibili che in ogni momento ci poniamo e dove il testo ci trasporta. Vari esercizi fisici compiono gli esecutori, sempre cantando, fino a terminare l’allenamento sui tapis roulant e a cantare corricchiando, persino citando qualche passaggio operistico. Poi, a poco a poco, si spogliano e si rivestono: proiettandosi verso gli ultimi movimenti del testo, quelli intitolati Futuro, cambiano natura, trasformandosi in cantanti in tenuta da sera, abiti eleganti, o luccicanti, cravatte, scarpe col tacco le donne, perfino dorate. Che metamorfosi ci aspettano? Cosa vuol dire mettersi in scena, vestirsi e travestirsi? Mettersi in pose, come fanno ora, alla fine, gli interpreti, con gesti iconici, in una coreografia che ha qualcosa della danza e pure delle “pose sceniche” del melodramma ottocentesco, atteggiamenti di derivazione scultorea che devono subito far intendere l’intenzione espressiva. Quanti abiti, uno sotto l’altro, dentro l’altro, formano il nostro abbigliarci?
Le luci, sempre diffuse, si fanno smorte. Un bollo di occhio di bue inquadra i cantanti nel loro balletto scandito da cesellati gesti convenzionali.
La visione diviene quasi opaca. Clacson fuori scena; boxare, pugni. Escono, elegantissimi, uno alla volta: verso i cimenti della vita? Voci lontane, celestiali. La scena sfuma nel buio, mentre da fuori si sente una svettante voce angelica accompagnata da un coro di voci bianche.
I prossimi spettacoli di Gradus sono: Gli ultimi amori del principe Genji, progetto di Marilena Katranidou, il 12 ottobre a Teatro Due a Parma; 89 Seconds to Midnight di Cabizza, Capaccioli, Ransom Phillips, Sgariboldi, Bardi, il 17 alle 21 al Teatro Farnese di Parma; Il sole s’era levato al suo colmo, di Budianu, Codrea, Dobrovicescu, Gavrilā, Nitulescu, Turchel, il 9 novembre alle 18 al Valli di Reggio Emilia.
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Le fotografie sono di Andrea Mazzoni.
