Santo Genet delle meraviglie

1 Agosto 2014

Il cimitero monumentale e il bordello. Il criminale e il santo. La trasfigurazione della vita banale, della vita brutale, in desiderio, attraverso il teatro. Il magister di questa operazione alchemica è Armando Punzo: gli elementi sono l’opera intera di Jean Genet, i detenuti attori della Compagnia della Fortezza di Volterra, lo stesso carcere trasformato in Eden dell’utopia, sontuosa, inquietante rappresentazione di un altrove insieme inattingibile e possibile. Lo spettacolo è Santo Genet, presentato al festival Volterrateatro.


L’anno scorso con lo studio Santo Genet commediante e martire Punzo ci portava nei recessi del carcere, in celle e stanze del piano terra dell’antico penitenziario di Volterra trasformate nei sontuosi ambienti del raffinato postribolo di Irma, la tenutaria del Balcon, luogo di apparizione dei personaggi dello scrittore galeotto che aveva applicato, come scrive il regista nella presentazione, “la crudeltà artaudiana verso se stesso, verso la sua biografia, trasformata, amputata di realismo, in un monumento alla diversità, all’esaltazione dell’inesaltabile”.

 


Gigolò e banditi abbigliati in modo sgargiante, decorati con monili luccicanti, imbellettati di oro e fiori; marinai prestanti in cerca di ogni avventura e capitani dall’animo femminile come da Querelle de Brest; cinesi cantanti motivi lontani e struggenti, roteanti ombrellini di carta; serve in abito lungo, con tatuaggi decò meravigliosi sul volto, guanti gialli di plastica e piumino per spolverare d’ordinanza; generali neri (anzi, “negri”, come scrive Genet); maschi fassbinderiani in cuoio esibenti muscoli potenti; vescovi, preti, prostitute vestite da infermiere o da madonne: ecco il baraccone delle meraviglie che riempiva il salotto di Irma Notre-Dame-des-Fleurs, con i criminali della banda di Stilitano trasformati in esseri eccessivi, leggiadri e meravigliosi allo stesso tempo, come i pederasti spacciatori ladri travestiti assassini chiamati Divine, Mignon, Culafroy.

Nel castello di Irma, badessa di bordelli e puttanili


Nello spettacolo di quest’anno ritorna tutto ciò. Ma c’è molto altro, prima e dopo lo sprofondamento nella galleria foderata di raso nero, nelle stanze ricoperte di velluto rosso, negli abissi di una realtà che chiede di non essere cristallizzata, che cerca trasfigurazione (il lavoro in carcere di Punzo è stato questo, negli anni: lottare contro il teatro del reale e il suo buon senso, contro la prigione dei ruoli sanzionati definitivamente, immobili; dimostrare che il vero carcere è quello fuori, che esclude, condanna dalla nascita i dannati del mondo e impedisce con i suoi rituali burocratici la trasformazione).

 


Si viene accolti da Punzo sotto gli alberi del cortile del severo carcere della Fortezza. Sbarre dappertutto. È abbigliato da Irma-NotreDame, pronto a far rifulgere il “segno sacro dei mostri”. Sorride, in abito lungo nero, con cilindro, al collo un serto di rose, il trucco pesante, teatrale. Un libro con un grande fiore di carta sulla copertina in una mano. Sorride, come per fermare il tempo, per aprirgli un’altra porta invisibile. Per proiettare altrove. Un cinese, su alti zoccoli di legno, figura di porcellana con trucco pronunciato, purifica di acque le pietre del pavé. Passiamo sotto una galleria di statue viventi: marinai in magliette a righe, dagli occhi lontani, assenti, muovono le braccia indicando, pregando, negando, facendo mostra di scagliare frecce… E arriviamo nel grande cimitero monumentale, bianchissimo, accecante sotto il sole mitigato appena da qualche nuvola di questa estate abortita.


Tombe, con libri. Colonne che non reggono nulla. Un severo angelo neoclassico su alto piedistallo. Una sposa velata di nero che si aggira guardandosi intorno sembra una Donna Elvira che piange ansiosa la morte del suo Don Giovanni, cercando ancora il piacere che lui si è rifiutato di darle. Vita e rimpianto.

 


Irma ci invita a entrare nel suo castello fatto di stanze trasparenti di materia simile al diamante, casa-anima, luogo dell’esibizione di qualcosa che si può comprendere abbandonandosi ai sensi più interni, all’occhio fondo della psiche. Lampeggiano altri personaggi, in un lancinante Padre nostro in albanese, in un monologo sulla necessità di trasformare la vita mutando semplici gradini in ricche scalinate di palazzi. Quattro angeli bambini e adolescenti, neri con ali d’oro, scandiscono un ritmo di guerra o di morte. Culafroy, interpretato da Aniello Arena, promette di sedurci mentre la situazione precipita e diventa disperata.

 


Un uomo con una corta scala fatta apposta per non portare in nessun luogo ci apre le porte delle stanze segrete, del salotto del raso, delle colonne, dei fiori finti e degli specchi, dove in ogni angolo incontreremo un criminale trasfigurato che racconta la propria storia, un personaggio emblema del potere, una scheggia di desiderio. Tutti ci parlano e ci guardano da lontano, attraverso. Spesso rivolgendo gli occhi malinconici negli specchi. Il pubblico circola tra questi fantasmi; essi girano in mezzo agli spettatori, riflettendosi, moltiplicandosi in mille specchi, aggirandosi tra teatrini e oggetti lussureggianti di barocco trovarobato. Lo spettacolo bisogna conquistarselo. Si può stare fermi, o muoversi, seguire il filo delle musiche dolci o incalzanti, incombenti, incontrare per scelta o per caso gli abitanti del castello, che cambiano continuamente luogo, come stelle di un cosmo, di una cosmogonia in esplosione (o in implosione).

Santos malandros, o della trasfigurazione


In vari punti ci guardano piccole statue dalle pose contorte che riproducono splendidamente marinai, gigolò, vescovi e le altre figure che si aggirano voraci di incontrare i nostri sguardi dappertutto. Sono come immagini votive, ispirate a quelle dei Santos malandros venezuelani, statue che decorano le tombe di banditi, riproducendone le fattezze, nei cimiteri di Caracas, alle quali la gente porta offerte e chiede protezione (qualcosa di simile a quello che avviene con teschi e altri antichi resti umani nella chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio all’Arco a Napoli). Vendicatori, Robin Hood, speranze di una vita migliore, sincretismo spiritistico con anime dei morti e con antiche divinità fuori rango? (Si pensi soprattutto all’umbanda brasiliana e al culto di Maria Lionzia, ancora in Venezuela.)

 


Qui queste effigi sono il senso dello spettacolo: rappresentano il rovesciamento di quello che crediamo, il tentativo di scardinare, con la forza del teatro, la realtà avvilita, trasformando la ferita profonda, il deragliamento, in umanità, in bellezza, fuori da ogni moralismo. La statua mortuaria, il cimitero: bisogna morire, per rinascere a nuova vita. Iniziazione. Volo in cerca dell’anima vera, rapita altrove. Sciamanesimo. Alchimia. Trasformazione del piombo e di ogni altra materia vile in oro.

 


Punzo, dopo gli anni della lotta per l’affermazione del suo teatro in carcere culminati nel Marat Sade, dopo quelli della provocazione (I negri, Macbeth, I pescecani  tra tutti gli spettacoli), dopo la riflessione e il gioco, dopo la protesta contro la mancanza d’aria (Pinocchio, Hamlice), con Santo Genet porta a compimento una linea già esplorata in Hamlice e in Mercuzio non vuole morire: proiettare la differenza, la minorità, nella bellezza struggente, nella costruzione di un altrove che renda cocente la necessità di metamorfosi.

Teatro/Cimitero


Santo Genet compie un miracolo che raramente il teatro oggi fa: costringe lo spettatore – stupito, frastornato, in certi momenti perfino annoiato se gli capita di non vedere molto a causa della folla che si muove e si accalca – a rimettersi in gioco, a costruire il proprio filo in questo mondo genettiano esploso, affrontato non con la sicurezza della messa in scena di un testo, ma con il coraggio di percorrerne tutta l’opera, per estrarne bagliori paradigmatici di una condizione, ricostruendola completamente. Drammaturgia, visione, trasformazione dello spettatore.

 


Tra le varie confessioni dei personaggi, si incontrano due stanze-installazione, una con opere di Mario Francesconi, graffi, invenzioni d’artista su ritratti di Genet con un San Sebastiano ferito da stampi di labbra rosse di rossetto, l’altra una wunderkammer  di Francesco Borrello fatta di autoritratti di prigionia e sofferenze. Nell’ambiente più grande, il teatrino Renzo Graziani – tre metri e mezzo per undici dove durante l’anno prova la Compagnia – sfilano invettive in  siciliano contro la fiducia nel potere, dialoghi strazianti tra una donna brutta e un  uomo, scene che rafforzano l’idea della finzione più reale della banale realtà. Fino alla trasfigurazione di due attori coperti lentamente da teli su cui vengono proiettate immagini sacre, con effetto Minotauro quando il corpo è quello del dipinto e la testa ancora quella dell’attore.

 


Un entusiasmante, coinvolgente ballo smuove ancora lo spettatore, nel corridoio, mentre Irma grida il volo delle sue decine di salotti, il salotto drappeggiato, il salotto di gala, il salotto chiaro di luna, il salotto orinatoio, il salotto funerario della morte solenne, tutto vola, drappi, sedie dorate…: “Andate a casa e vedrete che tutto è più falso di ciò che avete visto qui”. Una voce dolce, fine, malinconica, ci porterà fuori cantando. “Ognuno uccide ciò che ama”, “Each man kills the thing he loves”, il verso dello scrittore, Oscar Wilde, incarcerato per omosessualità.

 

 

L’ultima trasmutazione avviene di nuovo nel bianco del cimitero: i forzati sono come i fiori, sussurra Irma, mentre irrompono i santi, le figure dei reietti rese mito, ballano contro i mausolei, contro le pareti, verso il pubblico, sembrano uscire, varcare ancora la soglia, e tornare. Un re nero urla “Dahomey!” ed esalta, incisivo, il sangue barbaro, la bellezza nera che sconvolgerà le regole e i colori del nostro mondo. Tamburi a morto. Gli angeli bambini escono e rientrano nel mausoleo (soglie, soglie in continuazione si varcano, come per vivere, come per morire e assurgere ad altra vita). Distribuiscono fiori, mentre entrano gli arredi, le trouvailles della torre d’avorio barocca e decò eretta contro la vertigine del vuoto, tappeti, sgabelli, teatrini, cornici, specchi... “Il solo luogo dove si può costruire un teatro è un cimitero”. Morire, per rinascere, per rappresentarsi, diversi. Alchimia, sciamanesimo in cerca dell’anima sottile.

 


Irma si inginocchia al centro. Parte il canto di una scossante Ave Maria sarda. Lancio di fiori. Applauso entusiastico di spettatori convinti di avere assistito a uno degli spettacoli più belli di questi anni. Con i costumi e i “santi” meravigliosi di Emanuela Dall’Aglio, le scene di Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo, le musiche di Andrea Salvadori, innervatura delle emozioni dello spettacolo, e la partecipazione di quasi ottanta detenuti attori, bravissimi (con Giuseppe Venuto che è stato scarcerato dieci giorni prima dello spettacolo, e ha fatto domanda di poter rientrare nella Casa di pena per recitare; con Nino Mammino, che è tornato alla Compagnia dopo alcuni anni di allontanamento; con la partecipazione straordinaria della stupenda voce di Isabella Brogi; con la giovane Eva Chierici, che ha preso una settimana di ferie da cameriera in piena stagione turistica per fare la sposa in nero; con Francesca Tisano, un’altra giovane presenza ormai costante; con una ventina di collaboratori e quattro ragazzi tra i dieci e i quindici anni, impegnati a lungo, con entusiasmo, tutto il giorno, anche in altri laboratori del festival).

La ferita


Intorno al Santo Genet della Fortezza si è svolto il festival Volterrateatro. Molti dei lavori sono stati ospitati in carcere, con la prigione trasformata in un grande teatro con molti ambienti per recitare (i cortili, la chiesa interrata...). Sono nati per questa occasione In-colume/Volterra, un lavoro di Balletto Civile con la drammaturgia di Alessandro Berti su una generazione in-colume, inerte, inetta, inerme, e Logos- Rapsodia per Volterra di Archivio Zeta, che ha unito la città con venti chilometri di nastro rosso. Il tema, la ferita, nasce dalla frana che ha fatto crollare un pezzo di mura medievale in gennaio: ferita alla memoria, ferita dell’incuria, ferita della solitudine dell’artista emarginato. E tentativo di trovare nuovi legami, nuove proiezioni, ancora per trasfigurare, per trasformare.

 


Aldilà dei risultati dei singoli spettacoli (bellissimo era il lavoro di Archivio Zeta, che ha riannodato, utopicamente, la comunità, invadendo le strade, le piazze e luoghi significativi della città), resta la volontà di un festival di testimoniare un ruolo dell’arte negli scontri delle comunità sempre più lacerate in cui viviamo (da ricordare anche un convegno sulla ferita, a cura di Bianca Tosatti, in cui si è parlato, tra le altre cose, del vulnus all’umanità rappresentato dai morti del Mediterraneo e della sorte dell’Archivio immemoriale di Carmelo Bene, espropriato da sentenze di tribunale alla stessa volontà dell’artista e frammentato, disperso).

 


Un tentativo ancora di testimonianza, all’apparenza temerario, è stato trasportare con un allestimento di un solo giorno uno spettacolo labirintico come il Santo Genet sul palcoscenico del teatro Persio Flacco, una classica sala storica all’italiana. Registro per ora solo il dato di cronaca dell’immenso successo, con la sala in piedi in un’ovazione che si stringeva intorno a questi straordinari attori. Ci sarà modo, a partire dal debutto autunnale al teatro Menotti di Milano, di tornare su questa versione per l’esterno del carcere, interpretata solo da una quindicina di detenuti attori, quelli che hanno maturato il diritto a godere di permessi di lavoro, più ex detenuti tornati per l’occasione e vari amici figuranti.

 


Fluidità, metamorfosi, trasformazione: questo è il lavoro di Armando Punzo. La riflessione rigorosa, ferita, sulla possibilità di un teatro necessario, che trasformi attori e spettatori, in attesa del sospirato teatro stabile che permetta anche a chi ha già scontato la pena di trovare un lavoro vero sul palcoscenico, come sbocco di un eccezionale processo di formazione e maturazione artistica e umana.

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