Speciale

Sciascia Trenta / Cruciverba

22 Aprile 2019

Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

 

Non è certo il libro più noto di Sciascia. Però l’autore assicurava (nella quarta di copertina dell’edizione originale, Einaudi 1983) che scrivere alcuni dei saggi di cui si compone questa raccolta, la sua terza del genere, gli era costato un impegno sicuramente non inferiore a quello profuso per opere più celebrate quali Todo modo o Il consiglio d’Egitto.

I saggi in questione sono trentasei (come i capitoli di Pinocchio, ma sarà senz’altro un caso). Coprono un arco temporale che va dal 1954 al 1983, data della prima uscita, come già detto. Noi però citiamo dalla riedizione Adelphi, che è del 1998.

Il titolo origina da un’espressione di Francesco Paolo Trompeo: “quando Apollo e le Muse si mettono a fare le parole incrociate, nascono combinazioni stupende”. Trompeo era un fine francesista, oggi piuttosto dimenticato. Da lui Sciascia deriva, per estensione, non solo il titolo di uno di questi saggi Cruciverba su Carlo Eduardo (Stuart), che è anche il più antico, ma soprattutto l’idea, molto appropriata, del cruciverba, a indicare che i temi oggetto della sua scrittura saggistica sono pochi, ricorrenti, vieppiù approfonditi e, naturalmente, intersecati, anzi per l'appunto: incrociati.

E quali sono questi temi costanti, quasi ossessivi? La Sicilia in primis naturalmente, in tutte le sue varie declinazioni, che sono geografiche in testi come Le acque della Sicilia o I paesi dell’Etna o Palermo felicissima o Caltagirone; oppure letterarie: Verga e la memoria o Note pirandelliane o Letteratura e mafia (e qui è da registrare una definizione del modo di esser siciliani, sulla scorta di un autore ottocentesco, come “intesa tra persone di medesimi pensamenti e medesimo sentire”); storiche: Il mito del Vespro o L’Armada (ricordiamo che la flotta cristiana vittoriosa a Lepanto nel 1571 era partita da Messina); pittoriche: nei saggi su Antonello da Messina e su Guttuso o su Fausto Pirandello, il figlio di Luigi.

 

Accanto alla Sicilia c’è la Francia. Il libro infatti si chiude con un testo su Parigi. Ma la Francia che Sciascia ama è naturalmente quella del Settecento, il Secolo educatore, degli Illuministi, come Voltaire e Diderot, il cui Paradosso dell’attore, indimenticata lettura giovanile in una remota edizioncina Sonzogno, è oggetto di ripetute menzioni. Più ancora è presente Stendhal (onnipresente, a rigore), che è sì tema specifico di un In margine a Stendhal, però viene richiamato nelle occasioni più varie e dei cui personaggi si dice che sono delle creature settecentesche fuori tempo.

Accanto alla Sicilia, alla Francia, del Settecento e non (registriamo un Appunto su Bouvard e Pécuchet), c’è poco altro: Manzoni, qualche scrittore italiano difficile da classificare come Borgese e Savinio, una gustosa e densissima oltre che Breve storia del romanzo poliziesco.

Vediamo ora di cogliere in atto alcuni di questi continui incroci che fanno la sostanza del libro.

Il penultimo capitolo è dedicato a Caltagirone, l’ultimo, lo sappiamo, a Parigi. Il tramite tra i due è dato dai ricordi di Viollet-le-Duc, il celebre architetto parigino che, nelle sue lettere dalla Sicilia, parla estasiato proprio della piazza della cittadina. Non basta: secondo Sciascia, il primo vero scrittore siciliano fu Michele Palmieri di Miccichè, che scrisse in francese e pubblicò a Parigi e di cui noi forse nulla sapremmo se non avesse avuto la ventura di incontrare Stendhal e di esser stato da lui citato e postillato. Non solo, senza i monumentali reportage dell’abate di Saint-Non e del pittore Jean Houel (un cui dipinto è riprodotto in copertina nell’edizione Adelphi), nessuna o pochissime immagini noi avremmo della Sicilia tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Come si vede l’intersecarsi dei motivi non potrebbe essere più palese.

Offriamo qualche ulteriore esempio.

 

 

Il saggio d’apertura è su Luciano di Samosata (Luciano e le fedi). Dato che nel prosieguo della raccolta il mondo antico non è più presente, parrebbe un testo irrelato, estemporaneo. Ma non è, dato che Luciano è presentato come un illuminista avant la lettre, un vero e proprio compagno di Voltaire, anzi un suo fratello, spirituale e spiritoso. E nello scritto dedicato a Savinio, questi è assimilato proprio a Luciano e all’immancabile Stendhal: sono tutti e tre, per Sciascia, dei dilettanti, ma nel senso più nobile e puro della parola: essi si dilettano, provano diletto in quello che fanno. Di più, come Montaigne, e Sciascia stesso, proclamano come motto il seguente: non faccio mai nulla senza gioia.

Pure le pagine consacrate alla medicalizzazione della vita e aventi per tema i saggi sulla storia della morte in Occidente di Philippe Ariès sembrerebbero aver poco a che fare con il resto. Eppure anche qui Sciascia opera una sua, per così dire, sicilianizzazione: l’esser vissuto molti anni in un paese siciliano piuttosto chiuso e remoto gli ha permesso di sperimentare quel mutamento des attitudes de l’homme occidental devant la mort che altrimenti gli sarebbe sfuggito. È a Racalmuto che l’autore, nel corso del tempo, ha potuto cogliere il passaggio “dall’idea della morte all’interdetto della morte”. La medicalizzazione della vita si è compiuta lì, in quell’angolo sperduto della Sicilia: morire in ospedale e non a casa propria è divenuto normale, anzi auspicabile, da ignominia che era.

Ma possiamo dare anche qualche altro piccolo specimine, come direbbe Contini, di questo continuo entrelacement tra i saggi del libro. Ad esempio quello su Casanova, scrittore e non avventuriero per Sciascia, è strettamente legato a quello su Stendhal fra l’altro perché, secondo l’erudito Paul Lacroix, sarebbe proprio Stendhal il vero autore delle Mémoires del veneziano, tesi ardita che il nostro non condivide ma di cui suggerisce la plausibilità, o, almeno, la possibilità.

 

Che legame ci può essere tra Flaubert e Savinio? Semplice: sono entrambi soggiogati dal fascino ipnotico della stupidità, al punto che Sciascia usa le stesse identiche parole sia per lo scrittore francese che per quello italiano, ed è l’unico caso, nel libro, di ripetizione a distanza.

I due saggi su Alessandro Manzoni (Goethe e Manzoni e Storia della colonna infame), nei quali pure sono reperibili i fili dell’intreccio comune, vanno però ricordati per altri motivi. Nel primo si segnala la tesi del dimenticatissimo studioso Angelandrea Zottoli, controfirmata con piena adesione da Sciascia, che l’autentico protagonista dei Promessi sposi sia Don Abbondio. Altro che la Provvidenza, o il Seicento! Il sistema di Don Abbondio, sistema di servitù volontaria, di viltà e di culto del “particulare” di guicciardiniana memoria, assurge a sistema dell’intero nostro paese, ed è un veritiero, disperato ritratto delle cose d’Italia.

Nel secondo va sottolineata la portata, potremmo dire, metodologica, di certe conclusioni, come questa, per citarne una: “il passato… non è mai passato: e dobbiamo continuamente viverlo e giudicarlo nel presente se vogliamo essere davvero storici… La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre”. E difatti Sciascia legge le vicende degli sventurati Morra e Piazza, presunti untori della Milano secentesca, alla luce della legislazione premiale e della semi-impunità promessa “ai terroristi impropriamente detti pentiti”. Connettendo quindi, in un folgorante cortocircuito, le vicende remote e quelle della “più bruciante attualità”.

Nella nota finale l’autore dichiara che lo scarto di anni tra questi suoi saggi è ingente ed evidente. Ma noi ci permettiamo di contraddirlo. Non è così. A noi pare che il suo stile possieda, in tutti gli scritti presenti in Cruciverba l’intemporalità d’un classico.

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