Pornotopia

4 Aprile 2011

Com’è cominciato tutto? Com’è accaduto che siamo arrivati sino a questo punto? Prima della tavernetta di Arcore, prima delle grotte di Villa Certosa, delle piscine sotterranee, della lap dance, delle serre, dei letti girevoli, dei grandi divani, delle case arredate secondo i desideri di un Peter Pan fallocratico, delle Neverland sarde o delle ville pornobrianzole, cosa c’era? Tutto ha inizio con un giovane laureato in psicologia, Hugh Hefner, congedato da poco dall’esercito. Siamo nel novembre del 1953, in piena Guerra fredda, quando giunge nelle edicole americane una nuova rivista priva di data e di numero progressivo: pezzo unico. Si chiama Playboy e vende in pochi giorni 50.000 copie. All’epoca in America vigono leggi severe contro la pornografia, che limitano la distribuzione e la vendita di testi ed immagini di contenuto sessuale sia nelle edicole sia per posta. Non esiste la controcultura con le sue provocazioni e il Greenwich Village è solo un luogo un po’ bohemien; la Beat Generation deve debuttare, mentre Elvis guida ancora un camion a Memphis; inoltre, chi va in giro con una copia di Tropico del Cancro di Henry Miller sotto braccio rischia non solo la reputazione, ma persino l’arresto.


A far salire le vendite di quel primo numero della nuova impresa commerciale è soprattutto la fotografia di Marilyn Monroe scattata da Tom Kelley, e comprata a modico prezzo da Hefner in una casa editrice di calendari e poster di pin-up che vi ha rinunciato per non rischiare una denuncia per oscenità. Con quell’immagine, poi diventata celebre, quasi un santino degli anni Sessanta, Hefner inventa la pornografia moderna. Non perché ha usato un nudo umano, scrive Beatriz Preciado nel suo libro Pornotopia (Fandango), ma perché ha impiegato design e colore, e soprattutto disposto il nudo in un pieghevole che fa della rivista solo un supporto: contrasto, colore rosso e carne, ingrandimento, e soprattutto pagina doppia. Tutto questo è più pornografico del nudo stesso, scrive la studiosa.

 

Da qui, da un modesto evento editoriale, è cominciato tutto, almeno nella imponderabile catena delle cause e degli effetti. Quello che Playboy ha prodotto non è stato tuttavia solo un impero economico fondato sul sesso, sulle immagini del sesso, prive del sesso vero e proprio, e neppure un grande cambiamento nel costume di uomini e donne riguardo la sessualità, quanto piuttosto il modo con cui far irrompere nella sfera pubblica ciò che fino a quel punto era considerato privato. Certo, il processo che porta al superamento della distinzione tra pubblico e privato era già iniziato con l’avvento della televisione negli Stati Uniti, come spiegano i sociologi (in Italia la tv arriverà solo nel 1954, e il suo impatto sarà forte solo a partire dalla metà dei Sessanta); tuttavia, sottolinea Beatriz Preciado, “la cosa porno graficamente moderna era la trasformazione di Marylin in una informazione visuale meccanicamente riproducibile capace di suscitare affetti corporali”.

Playboy non è solo una rivista di nudi, oltre che d’intrattenimento colto – nel primo numero contiene articoli sul jazz, sul Decameron, brani di Sherlock Holmes di Conan Doyle –, ma anche una rivista d’interni: un reportage sul design per l’ufficio moderno. Da allora in poi la creatura di Hefner, diventato ben presto ricchissimo, ha lavorato sullo spazio e sulla sua immaginazione. Meglio: sullo spazio immaginario. Ha creato una nuova mentalità, e insieme un consenso, cambiando il modo di sognare a occhi aperti di milioni d’americani, e poi di milioni di europei, di maschi di là e di qua dall’Oceano. Il guru delle Conigliette ha inventato “nuove modalità di produzione di senso e soggettività che avrebbero caratterizzato la cultura americana del XX secolo”. Con ogni probabilità senza la rivista per uomini di Hefner non ci sarebbe neppure Andy Warhol: la sua Factory, luogo dell’immaginario trasgressivo e insieme creativo, tana dell’arte del XX secolo, è infatti pensabile solo in rapporto simmetrico alle case allestite da Hefner. Il letto girevole su cui Hefner lavora eternamente in pigiama, cancellando la differenza tra giorno e notte, tra feriale e festivo, tra attività di direzione e attività sessuale. Sul letto coperto di fogli e fotografie, avvengono gli incontri d’affari e i meeting con le conigliette, il tutto registrato con mezzi visivi e sonori, uno spettacolo continuo che va in onda ben prima del Grande Fratello e dei social network. Come racconta l’autrice del saggio, dedicato ad architettura e sessualità, il giaciglio è meccanizzato, ruota su se stesso; ha telecomandi, telefoni e televisori; e durante gli anni della Guerra fredda funziona come “uno spazio di transizione in cui si modella il nuovo soggetto proteico e ultraconnesso, e i nuovi piaceri virtuali e mediatici dell’ipermodernità farmacopornografica”.

Hugh Hefner ha realizzato per mezzo delle pagine del suo periodico, ma anche mediante le foto della sua casa, e poi dei Playboy Club, la teatralizzazione dello spazio domestico, sottraendolo al dominio della donna e destinandolo al dominio del maschio eterosessuale, singolo, magari anche divorziato: un James Bond della vita quotidiana.

 

L’agente 007 è un altro dei miti della Guerra fredda che dalle pagine dei romanzi di Ian Fleming, pubblicati negli anni Cinquanta, si trasferisce sullo schermo nel decennio successivo. Hefner a posteriori ha raccontato così il proprio progetto: “Volevo una casa da sogno. Un luogo nel quale fosse possibile lavorare e anche divertirsi, senza i problemi e i conflitti del mondo esterno. Un ambiente che un uomo potesse gestire da solo. Lì sarebbe stato possibile trasformare la notte in giorno, vedere un film a mezzanotte e chiedere che mi fosse servita la cena a mezzogiorno, partecipare a incontri di lavoro in piena notte ed avere incontri romantici la sera… Mentre il resto del mondo restava fuori dal mio controllo, nella Playboy Mansion tutto sarebbe stato perfetto”. Un luogo che però non è completamente isolato: l’abitante della casa di Playboy “è una versione erotizzata dell’uomo iperconnesso di Marshall McLuhan”.

 

L’edificio che Hefner fa progettare a Chicago come residenza, e insieme emblema del suo impero porno, è una casa di tre piani, quasi una caricatura della architettura moderna, con la facciata in vetro e cemento, assolutamente trasparente. Illuminata durante la notte, doveva rendere visibile l’interno, così che dalla strada si potesse distinguere il piano terra con la Porche parcheggiata e il secondo piano, un salotto raggiungibile dalla scala a chiocciola. Ma il centro della Mansion, punto focale dello spazio insieme reale e immaginario, è la piscina. Si trova al centro dell’abitazione e ha una forma irregolare, quasi una grotta dalle forme razionaliste, che voleva dare ai visitatori l’impressione di una costruzione che sorge intorno allo specchio d’acqua, direttamente da quella fonte di vita e giovinezza. L’acqua come rigenerazione è una delle ossessioni americane, in particolare della West Coast, dove non vi è villa o dimora di miliardari che non abbia la sua piscina, come racconta Sprawson Charles in L’ombra del massaggiatore nero (Adelphi): l’acqua come mito fondativo dell’America. Quando nel 1971 il padrone di Playboy sposta la sua residenza da Chicago a Los Angeles, la grotta diventerà il vero polo architettonico della magione, insieme al giardino botanico e allo zoo. Come scrive Beatriz Preciado, il modello immaginario seguito da Hefner nella sua pornotropia abitativa sarà l’isola artificiale climatizzata dell’architettura utopistica e dell’orientalismo coloniale: il paradiso in terra ottenuto mediante la costruzione di un’isola artificiale e del giardino paradisiaco.