Roberto Faenza. Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile

29 Febbraio 2012

In un Bildungsroman che si rispetti – come lo sono Someday this pain will be useful to you di Peter Cameron e la sua versione cinematografica, che adesso arriva nelle sale, di Roberto Faenza – bisogna diventar scemi. Così James/Holden, il ragazzino protagonista di questa storia d’apprendistato, è colto, sensibilissimo, ne sa d’arte contemporanea e di letteratura mondiale, ed è straordinariamente intelligente. Imparerà a stare nel mondo filisteo degli adulti, a saper vivere, ossia, appunto, a farsi un po’ stupido. Riuscirà a mettere da parte molta della sua irritazione nei confronti degli altri, soprattutto dei suoi coetanei, proverà a dare una giustificazione alle banali follie autodistruttive dei genitori e della sorella, capirà che deve proseguire i suoi studi immergendosi in un qualche maleodorante college universitario.

 

 

Su una cosa, però, sembra non cedere le armi: sulla sua concezione del linguaggio, che è e resta sino alla fine un po’ ingenua. Rigorosissima quanto a precisione comunicativa e chiarezza semantica, particolarmente esigente nell’aspettarsi dagli altri e da se stesso un uso iperpreciso delle parole che possa riprodurre al meglio i processi del pensiero. Per James, come per certi logici d’antan, le parole devono rispecchiare le cose, oppure è meglio tacere, quasi a osservare il mai citato, ma sfacciatamente presente, adagio wittgensteiniano: ciò su cui non si può parlare, si deve tacere.

 

 

Nessuno sta zitto, nel romanzo e nel film, anzi tutti straparlano, sempre e comunque, finendo per rovinarsi le vite. Ed ecco la protofilosofia di James, che potrebbe a suo dire salvarli: “Quasi tutti credono che le cose non siano vere finché non sono state dette, che sia la comunicazione, non il pensiero, a dargli legittimità. È per questo che la gente vuole sempre che gli si dica: ‘Ti amo, ti voglio bene’. Per me è il contrario: i pensieri sono più veri quando vengono pensati, esprimerli li distorce o li diluisce, la cosa migliore è che restino nell’hangar buio della mente, nel suo clima controllato, perché l’aria e la luce possono alterarli come una pellicola esposta accidentalmente”. A un certo punto appare perfino un professore di teoria del linguaggio, manco a dirlo flirtante con una ragazzina, che sproloquia più di tutti facendoci una figura tutt’altro che signorile.

 

 

E dato che di parole e loro significati si discute con una certa maniacalità nel racconto di Cameron e di Faenza, vale la pena di soffermarsi su una questione non lessicale ma testuale. Sono convinto infatti che in Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile il problema di fondo stia soprattutto nel suo titolo. Sarà pure una criptocitazione da Ovidio, come è noto, ma ciò non toglie che nel passaggio dal romanzo di Cameron al film di Faenza qualcosa accada giusto là: non nel titolo in sé, che è identico, ma nella sua collocazione all’interno della storia e, dunque, nel suo significato. Lo so: il gioco dei paragoni fra testo letterario e trasposizione filmica è odioso, non foss’altro perché spesso pregiudiziale, autoriale, intellettualistico, e in ogni caso fumoso, ci sarebbe da dire inutile. E anche in questo caso non ha molto senso: ci sono alcune cose che Faenza ha cambiato (la psicanalista che da scema e incapace diventa ipertrendy), altre che ha eliminato (la decisione finale di frequentare l’università),  altre ancora che ha aggiunto (bellissima la scena della discarica). Aveva tutto il diritto, direi il dovere, di farlo, e lo ha fatto: con buoni risultati, direi. Altrimenti perché andare a vedere il suo film?

 

 

Sul titolo, però, qualcosa va eccepita. Nel romanzo esso appare in uno di quei luoghi di socializzazione obbligatoria che James detesta profondamente, una specie di campeggio estivo dove i genitori lo spediscono contro la sua volontà: “Anche il motto del campo era sinistro: ‘Sii forte e paziente: un giorno questo dolore ti sarà utile’”. Che è appunto la celebre frase di Ovidio usata parzialmente da Cameron come titolo del libro, dandole un valore – evidentemente – ironico, ossia fortemente negativo, sinistro appunto. Forse a qualcuno apparirà un paragone forzato, ma a me questo motto del campo estivo di James fa pensare alla ben più terribile, ma strutturalmente analoga, scritta concentrazionaria ‘Arbeit macht frei’. Come dire che il protagonista, e il suo autore con lui, non pensano affatto che il dolore adolescenziale possa essere, un giorno, utile. È semmai la società, funzionalista e filistea, a volercelo far credere. Nessun dolore può mai essere utile, se non per quei luoghi falsamente felici dove i corpi, ammassati e costretti, vengono sottoposti a un regime tecnocratico e ingegneristico che, silenziosamente, non possono non detestare. Un dolore può forse avere un senso, mai un’utilità.

 

Nel film le cose si ribaltano: è la nonna, uno dei pochi personaggi positivi della storia, che James ama e stima come nessun altro, a usare la frase ovidiana in una specie di lascito morale testamentario. Prima di morire dona a James un libro (quale?) dove la famigerata frase sta a mo’ di dedica, attribuendole pertanto un valore etico ed esistenziale del tutto positivo. Come dire: ‘non preoccuparti nipotino mio, un giorno il dolore che oggi provi ti servirà a qualcosa’. Sono le ultime parole del film, e lo spettatore va via soddisfatto, appagato, rasserenato.

Che sia il passaggio dai laici Stati Uniti alla cattolicissima Italia?

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